con Ignazio Gardella, Fabio Reinhart e Angelo Sibilla
Genova, 1983-1989
Quando passavo per Genova vedevo il Pronao del Carlo Felice emergersi sopra le rovine; ma non mi riferisco alle rovine stesse del teatro, quanto a una rovina più generale delle città e dell’architettura.
Questo Pronao portava l’angelo (forse lo stesso angelo sterminatore di Bunuel) bello nella sua stessa mutilazione. Forse nessun teatro aveva e ha questo ingresso giustamente chiamato l’ingresso del Principe. E non perché destinato a un Principe ma per questo suo porsi in contrasto con la pianta del teatro per rivolgersi alla città e per stare come a picco sopra i vicoli che scendono al mare, confusi e oggi perduti, e stare come un’acropoli di bianca e grigia pietra. Lasciamo ai filologi le differenze con La Scala, con il Regio, con tutti i teatri d’opera italiana: esisterà un filo che li lega ma che io non vedo.
Genova è di una bellezza sgraziata, e anche sgraziato era questo teatro; ma era difficile ricucirlo come operazione chirurgica che non riguardasse il restauro, perché restaurati i singoli pezzi questi si dovevano ricomporre in un corpo nuovo.
E non erano frammenti, ma grandi pezzi scheggiati e feriti. Le ferite dell’architettura sono affascinanti come quelle degli uomini per quel loro essere esterno e interno e anche vita e morte, con il dispiacere di chiuderle e i segni del ricongiungimento.
Così vedevo questo corpo ferito del teatro genovese, ed è forse l’emozione che è poi rimasta in tutto lo svolgimento dell’opera.
Altri parleranno delle vicende del teatro ed io potrei parlare della fortuna di aver lavorato con Ignazio Gardeila e con altri bravi architetti.
Ma non mi è stato chiesto uno scritto di omaggio e di ricordi, ma di parlare di questo teatro, e di questo progetto. E i progetti nascono da questo nucleo che via via si conforma, come si conformavano il pronao e la torre scenica come se fossero inconciliabili nella loro superba autonomia. Ma lentamente formavano la città, il primo come nuova piazza aperta sulla galleria Mazzini (bellissima e tristemente genovese) mentre la torre copriva lo squallido profilo urbano della ricostruzione.
Così si formavano interno ed esterno e sembrava come una sintesi necessaria la torre-faro che attraversando i piani dei foyer portava la luce del cielo all’interno del teatro e la luce interna, l’intimità del teatro, nella notte genovese. Abbiamo lavorato molto su questo teatro fino all’avvicinamento e alla costruzione della sala. Tra tutte le costruzioni il teatro offre all’architetto una strana serenità, e infine l’interno separa il mondo della realtà da quello della finzione. Allora l’interno si conformava proprio come il luogo della realtà e della finzione e dei loro reciproci scambi: che è poi il teatro.
Nei primi disegni la sala riproduceva una facciata o piazza genovese o pisana creando un esterno interno, e questo è rimasto anche se la sala è diventata come più severa. Come in questo schizzo, dove interno ed esterno si affrontano o dispongono sullo stesso piano come se l’architettura invece che comporsi in volume fosse una successione di elementi, un catalogo di forme note o ignote. In altri disegni emergeva la torre azzurra e l’occhio luminoso al posto dell’orologio.